LUNGO I SENTIERI DELLA RESISTENZA

 

Nella Bologna dei primi anni Ottanta la vita di noi giovanissimi aveva come luogo principe il cortile.

Era lì che, una volta assolti gli obblighi scolastici, si prendevano le misure al mondo e ci si addestrava a crescere come animali sociali; il gioco — calcio, nascondino, corse in bici, battaglie fra indiani e cowboy — era la grammatica comune grazie alla quale ognuno di noi imparava a misurarsi con i coetanei, a valorizzare il proprio carattere e a gestire le proprie debolezze.

La ricchezza del cortile era data anche dal suo essere agorà, foro, social club per uomini e donne di generazioni diverse.

Osservando di sottecchi l’agire di cugini e zii ci preparavamo a diventare adolescenti, giovanotti, ragazzi grandi; poi c’erano i vecchi, patriarchi e matriarche ormai in pensione, i nostri nonni e i loro coetanei, gente che in gioventù aveva vissuto esperienze straordinarie, e non si faceva pregare troppo per raccontarcele.

Fra quanti avevano fatto la guerra, il più ascoltato era il signor Giancarlo; era diventato partigiano ancora adolescente, e quando ci raccontava di quelle stagioni epiche e spaventose non si dava mai un tono da eroe.

Sabotare le attrezzature dei Tedeschi, sfuggire ai rastrellamenti, nascondersi e imbracciare un’arma, nelle sue parole erano state cose necessarie, non motivi di vanto.

Dare il suo contributo ad abbattere la dittatura e liberare l’Italia dall’occupante straniero era qualcosa che, semplicemente, “gli era toccato fare” per rispondere a un senso di giustizia, e la sua modestia me lo faceva ancora più caro.

Sono trascorse molte primavere, da allora; chi era bambino oggi è padre, e molti fra gli anziani di allora non sono più fra noi.

Qualche tempo fa il signor Giancarlo mi ha fatto sapere che avrebbe gradito una visita.

Sapeva della mia passione per i viaggi a piedi, e consegnandomi il suo fazzoletto da partigiano mi ha detto: «Ormai sono vecchio.  

Fammi la cortesia di portarlo in giro tu, che hai ancora le gambe buone».

Così ho riposto il fazzoletto nello zaino, e appena la primavera ha liberato creste e versanti dalla neve sono partito per un viaggio lungo il filo d’Appennino, per ripercorrere quella Linea Gotica che ha diviso l’Italia in due nella stagione più tragica che il nostro Paese si sia trovato ad affrontare.

Nel lasciarmi alle spalle il mare di Rimini per risalire verso il cuore della Penisola, ancora non sapevo quante e quali storie avrei incrociato lungo il mio percorso verso il Tirreno.

Nel corso di due settimane di cammino, praticamente non sarebbe trascorso giorno senza trovare traccia dell’immenso dolore che investì l’Italia fra l’autunno 1943 e la primavera del ’45.

Sulle prime alture romagnole investite dalle battaglie ingaggiate dagli Alleati per sfondare la “Linea dei Goti” sorgono i musei di Gemmano e Montegridolfo, ma i racconti più autentici escono dalla bocca dei vegliardi che, davanti a un bicchiere di vino, ancora si commuovono a ricordare quei giorni di barbarie, suppliche inascoltate e morti insepolti; a San Marino si può entrare nelle gallerie che ospitarono gli sfollati della Riviera, terrorizzati dalle tempeste di fuoco e d’acciaio che si abbattevano sulle proprie case; lungo la riva del Senatello si trova il luogo dove furono fucilati gli “otto martiri” bollati come banditen, e proseguendo verso l’interno si raggiunge Tavolicci, una frazione annichilita dalla furia dei Tedeschi in ritirata nell’estate del ’44.

La repressione contro i partigiani e l’inumana “guerra ai civili” s’intreccia con fatti d’armi che videro fianco a fianco gli irregolari del Cln e gli eserciti dei “liberatori” — che non sempre, come noto, si comportarono da gentiluomini — come a Monte Battaglia, la cui antica rocca fu testimone di un simultaneo assalto di partigiani e truppe americane; la lotta fratricida, le delazioni e le manovre a tenaglia non risparmiarono neppure le “Foreste sacre” tra la sorgente del Tevere, l’Eremo di Camaldoli e la fonte dell’Arno; al passo della Futa un enorme cimitero di guerra germanico ricorda che a pagare il conto dell’orrore furono anche i giovani tedeschi, mentre scendendo verso Bologna si giunge a Monte Sole, teatro dell’orrenda strage di donne, vecchi e bambini compiuta dalle SS di Reder, che nell’autunno ’44 si lasciarono alle spalle settecentosettanta cadaveri e interi villaggi ridotti a macerie fumanti.

Il culto dei comandanti partigiani caduti in zona, da “ Lupo” Musolesi a Toni Giuriolo, protagonista del romanzo I piccoli maestri di Luigi Meneghello, appare spoglio di retorica se lo si confronta con le memorie di quanti presero ancora giovanissimi la via della montagna, come Enzo Biagi, cresciuto ai piedi del Corno alle Scale; appena più in là, seguendo il sentiero 00 e la sua variante moderna, l’Alta Via dei Parchi, si raggiungono il passo dell’Abetone e i valichi ai piedi dei quali venne proclamata in territorio modenese e reggiano la Repubblica di Montefiorino, abbattuta dai nazifascisti ma abbastanza forte da risorgere e mantenersi libera sino al termine del conflitto.

Dal passo di Pradarena, sopra Ligonchio, si scende fra i boschi della Garfagnana, e da Barga si riprende quota verso le Apuane, dove camminamenti, bunker e muraglie anticarro sono ancora intatti; qui, fra le montagne del marmo, l’epos partigiano della Divisione Lunense e del Gruppo Valanga incontra quello di truppe alleate che all’epoca apparvero a dir poco esotiche — i Nisei hawaiani, i Brasiliani, i battaglioni di soli blacks statunitensi.

Ci si confronta con gli episodi di collaborazione e le incomprensioni, talora fortissimamente volute, fra comandi alleati e partigiani, come il “malinteso” che causò la morte di Miro Luperi, il comandante “Reno”, abbastanza coraggioso da attaccare per primo le forze germaniche convinto di ricevere un appoggio che non sarebbe mai arrivato.

È difficile trattenere le lacrime osservando le foto delle piccole vittime ammassate nella chiesa di Sant’Anna di Stazzema; erano bimbi non diversi da noialtri quando ancora trascorrevamo i pomeriggi in cortile.

Mentre si scende verso le spiagge della Versilia è fatale sentir riecheggiare in testa i versi orgogliosamente rabbiosi che Calamandrei dedicò al feroce Kesselring; ormai, avanzando nel vento salmastro, non possiamo più credere che “gli uni e gli altri si equivalevano”.

No.

La nostra Italia, l’Italia di cui vogliamo tenere viva la memoria, è quella dei ribelli della montagna, del presidente Pertini, del signor Giancarlo.

Qualcuno, ancora ragazzo, trovò il coraggio per fare la scelta più difficile, e siamo fieri di essergli stati amici per tutta la vita.

Ormai il mare ci balugina di fronte, e dopo tanti giorni in montagna stiamo per tornare in mezzo alla gente: è tempo di tirare fuori dallo zaino il fazzoletto che ci è stato donato, e mettercelo al collo ché tutti possano vederlo.

 

(Articolo di Enrico Brizzi, pubblicato con questo titolo il 23 aprile 2017 su “la Repubblica”)

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